Volta la carta

DI PUNTA E DI TACCO - FELICE VIRGILIO LEVRATTO

Levratto foto“Oh oh oh oh che centroattacco! Oh oh oh oh tu sei un cerbiatto! Sei meglio di Levratto, ogni tiro va nel sacco, oh oh oh che centroattacco!” E se il Quartetto Cetra nel 1959 poteva permettersi cotanto paragone per raccontare le gesta di “Spartaco che nella Quinta B giocava centroattacco tutti i giovedì”, vuol dire che qualcosa di buono Felice Virgilio Levratto l’aveva combinato.

Forse adesso quando si parla di un attaccante potente l’associazione di idee viene spontanea con Riva, ma chi ha una certa età (grazie anche ai Cetra) pensa subito a Levratto, lo sfondatore di reti per eccellenza. E fuori di metafora: Levratto le reti le ha sfondate davvero, tanto forte è stato il suo sinistro. Lo fa sette volte, almeno secondo le cronache dell’epoca, che in perfetto stile littorio accentuano gli aspetti epici e rendono roboantI anche i più noiosi 0-0.

Di certo la prima volta lo fa il 17 luglio 1922, in un’occasione storica, la prima finale di Coppa Italia tra Udinese e Vado Ligure, la squadra del suo paese. Una Coppa Italia diversa da quella attuale dove possono partecipare tutte le società di qualsiasi categoria, purché dispongano di campo cintato e si impegnino a pagare la trasferta agli avversari. In sostanza si tratta del torneo di consolazione per i club eliminati dal campionato federale, tanto che la seconda edizione andrà in scena solo nel 1935.

Ma si tratta pur sempre di un trofeo nazionale. Logico quindi che le due squadre cerchino anzitutto di non prendere goal. Così dopo 127 minuti (compresi supplementari e recuperi vari) si è ancora sullo 0-0: sta per fare buio e sembra inevitabile dover ripetere la partita. Ultimo minuto: Roletti ruba palla all’Udinese, passa a Marchese che dà al diciottenne Levratto, in posizione di ala destra. Botta disperata di esterno mancino e palla che entra in porta all’incrocio dei pali. Ma il pallone non si trova più nella rete e l’arbitro prima di convalidare il goal deve constatare che è stata bucata dal tiro potentissimo.

Non poteva che essere straordinario tutto quello che faceva Levratto, colui che è considerato il più grande giocatore italiano a non aver mai vinto lo scudetto. Colpa, o merito, dipende dai punti di vista, della scelta che Levratto fa a nemmeno ventuno anni, senza mai pentirsene, quando è conteso da Juventus e Genoa.

Si figura per un attimo in quella Torino bella sì, ma senza il mare, con compagni di gioco che conosce e stima, ma che non avrebbero mai potuto colmare quella solitudine di ligure schivo, abituato a vivere nel suo piccolo guscio. A Genova invece c’è il mare, il dialetto è più o meno lo stesso, la maglia è del medesimo colore, casa sua dista soli cinquanta chilometri. E sceglie il Genoa. Un Genoa che l’anno prima, nel 1924, aveva vinto il nono e ultimo scudetto.

Levratto ci arriva sull’onda della fama di attaccante ciclonico ma correttissimo allo stesso tempo grazie a un episodio accaduto alle Olimpiadi di Parigi, nella partita contro il Lussemburgo, il 29 maggio di quell’anno: nel secondo tempo, tira una botta tremenda centrando in pieno il viso del portiere Bausch, che crolla a terra svenuto e sanguinante. La pallonata l’aveva colpito mentre si mordicchiava la lingua e se ne era tranciata un pezzetto.

«Un mezzo omicidio involontario» lo definisce il Commissario Tecnico Vittorio Pozzo, che indica a Bausch chi aveva fatto quel tiro. Pochi minuti dopo Virgilio Felice si ripresenta solo davanti al portiere che non ci pensa su due volte: abbandona i pali e si tuffa dietro la rete per evitare un altro KO con il pallone. Puro istinto di conservazione che gli salva non solo i connotati ma anche la porta: Levratto, infatti, si mette a ridere così tanto che rinuncia a segnare, anche per un senso di correttezza che gli vale titoli entusiastici sulla stampa sportiva francese.

Nei suoi sette anni genoani, Levratto la butta dentro ottantaquattro volte, diventando il giocatore più famoso che abbia mai militato in rossoblu, anche se paradossalmente non ha mai vinto il campionato: la crescita impetuosa di altre realtà metropolitane, anche meglio protette politicamente ed economicamente come Inter, Bologna, Juventus, Milan, un po’ di sfortuna, una realtà tecnica e tattica non più di primissimo livello (tipo l’allenatore Szekany, che dava aspirine nell’intervallo ai giocatori per farli sudare) sono le cause del mancato successo genoano.

Levratto il suo lo fa sempre, trasformandosi in un idolo che, ogni volta che si muove in treno tra Vado e Genova, provoca scazzottamenti tra i tifosi che si contendevano il privilegio di accompagnarlo e portargli la valigia. Continua a sfondare reti, come alle Olimpiadi di Amsterdam, il 4 giugno 1928, contro la Spagna: un tiro dal limite che colpisce e spedisce in porta due avversari, prima di bucare la rete.

Poi qualcosa si rompe. Prima la sua schiena: una botta presa contro il Livorno lo tiene nell’immobilità assoluta per sei mesi, facendo temere anche la paralisi. È l’occasione per scoprire i classici della letteratura russa, da “Delitto e castigo” a “Anna Karenina” e comincia a capire che esistono dolori morali e danni spirituali superiori al suo. Poi il rapporto con i tifosi, che dall’infortunio non lo vedono tornare subito ai livelli conosciuti e si mettono a contestarlo duramente.

Ed è Levratto stesso, a quel punto, a chiedere di essere ceduto. Si fa avanti l’Inter, dove per due anni fa coppia con Meazza. Per altri due anni gioca alla Lazio (con Piola), quindi inizia a fare il giocatore-allenatore (ma anche massaggiatore, segretario, dirigente) in C, al Savona alla Cavese.

Alla fine non gli resta che la panchina ed è allenatore della Fiorentina che nel 1955-56 vince lo scudetto, anche se la vera mente tattica della squadra viola era Fulvio Bernardini, formalmente solo Direttore Tecnico.

Lo “sfondareti” muore nel 1968, dopo alcuni giorni di delirio conclusisi con la visione di un campo di calcio. Levratto si mette a incitare i compagni immaginari: «Via, via, avanti».

Pensare al goal fino all’ultimo: una fine degna di un campione come lui.


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