Brescia, sala riunioni del CONI, secondo incontro del corso per dirigenti sportivi di II livello: tra le serate del corso ho già programmato un’assenza, quindi un’altra non mi avrebbe dato la possibilità di conseguire la qualifica finale.
Non che la formazione sia una caccia all’attestato, ma perché rinunciare, quando è a portata di mano?
E così non mi sono potuto esimere dalla frequenza di questa serata: in tutta franchezza, se avessi potuto, l’avrei saltata a piè pari, vista la difficile applicazione pratica degli argomenti trattati, ma soprattutto a causa della mia grande ignoranza.
Una somma di circostanze mi ha evitato un errore.
Andiamo al sodo: l’argomento era “Disabilità nello sport”.
Non so quanti di voi ne abbiano avuto esperienza, io non ne ho, ma ora sono contento di ammettere che per me è stata una lezione (in tutti i sensi) molto interessante e formativa: il Prof. Angelo Martinoli, docente della serata, ha meritato l’applauso finale da parte della sala.
Per i più che come me non hanno mai esplorato quella realtà, il Prof. Martinoli è il Delegato per la Provincia di Brescia del CIP (Comitato Italiano Paralimpico), nonché referente per la Regione Lombardia per gli sport invernali della FISDIR (Federazione Italiana Sport Disabilità Intellettiva e Relazionale) e istruttore della Polisportiva Disabili Valcamonica.
Chi si era atteso un’atmosfera tutta naïf, condita di sorrisi e commiserazione, si è dovuto ricredere: nulla di più agonistico, nulla di più diverso dall’opinione comune, figlia della disinformazione, e contemporaneamente nulla di più vicino alle nostre società ed ai nostri ragazzi, per fortuna sani e dalle potenzialità illimitate in ogni momento della loro giornata.
Che nella nostra quotidiana attività possiamo incrociare il mondo sportivo della disabilità oppure no, penso che sia un dovere civico conoscerlo, un dovere al quale mi sono sempre sottratto, ma non per questo devo perseverare nella mia ignavia.
Credo che nella formazione di un dirigente sportivo debba trovare spazio anche questo capitolo.
Le ragioni per avvicinarsi a quel mondo e possibilmente per esserne parte attiva sono principalmente di due ordini:
- da quando l’Uomo ha cominciato a presentare caratteristiche tali da poterlo distinguere dalle altre specie, è stato onorato, a torto o a ragione, della definizione di “animale sociale”; essere “sociali” significa adottare comportamenti del tutto indipendenti, quando non addirittura contrari, alla propria convenienza del momento, a favore di altri individui: questi comportamenti sono dettati da ciò che la cultura di ognuno può chiamare coscienza, morale, legge o altro, che faccia comunque risultare giusto o opportuno un determinato comportamento altruista, senza nulla di eroico nel termine.
- l’altro ordine di ragioni può stimolare chi, sforzandosi di mettersi nei panni di una persona con disabilità, riesca ad immaginarsi anche solo una piccola parte degli ostacoli che quella persona incontra ad ogni ora di ogni giorno, immaginando che nella stessa situazione potrebbe da un istante all’altro trovarsi il proprio figlio.
Ricordiamoci del ragionamento “…ma tanto capita raramente e se dovesse capitare, non capiterà all’interno della mia società sportiva, o nella squadra di mio figlio, o a mio figlio stesso, ma magari a quello di chi mi sta seduto a fianco in tribuna alle partite”.
Il fatto che questo ragionamento lo possa fare specularmente anche chi effettivamente ci sta seduto a fianco in tribuna alle partite, potrebbe essere una molla sufficiente per scuoterci e spingerci a dare un contributo, nell’ambito delle proprie abilità.
Dal colloquio che ho avuto con il Prof. Martinoli è emersa ovviamente la natura della figura del tecnico e quella del dirigente: una bella miscela che fa evidenziare i motivi per “fare” da parte del tecnico e le difficoltà e i costi da parte del dirigente; durante quello scambio di opinioni avevo davanti non più il docente, ma UN tecnico, come se fosse della mia società.
Da questo tipo di confronti nascono le idee, che volontà e circostanze favorevoli possono tramutare in fatti.
“IO CI PROVO”, ho concluso, salutando il tecnico.
Sarà un buco nell’acqua? Non importa, non sarebbe il primo e senza correre il rischio di farne, avrei combinato sempre molto poco.
Il prossimo passo sarà quello di parlarne in società, per vedere fino a dove potremmo renderci utili, dando il nostro contributo, che è iniziato con quest’articolo.
Mi auguro di poter sentire “IO CI PROVO” anche da altre società, in particolare da quelle nella nostra zona: non c’è da vincere coppe o scalare categorie, si tratta solo di metterci un po’ di noi stessi.