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RELIGIONE E SPORT

imageLa religione è anche ostentazione dei propri sentimenti?

Dio e il Vangelo sono “prodotti” da “reclamizzare”?

A molti sportivi non sarà passato certamente inosservato, in occasione di alcune partite di calcio, che alcuni atleti entrano in campo facendosi e rifacendosi il segno della croce o, in occasione della segnatura di una rete, esibendo sotto la divisa ufficiale di gara la propria appartenenza alla Chiesa di Cristo.
“I belong to Jesus (io appartengo a Gesù)” è, infatti, il messaggio che compare sulle magliette indossate da alcuni calciatori, con il dichiarato intento di diffondere in ogni modo possibile il messaggio del Vangelo attraverso lo sport. Non ci riferiamo a una setta religiosa e neppure a una moda del momento: sono gli “Atleti di Cristo”, movimento che ha visto la luce nella metà degli anni ‘80 in Brasile e che ora annovera decine di sportivi, principalmente calciatori di origine brasiliana, oltre all’indimenticato e amato campione brasiliano di Formula 1, scomparso a Imola nel maggio del 1994. Anomalia dello sport di vertice, spesso circoscritto a donne, motori, investimenti faraonici e vita mondana o, piuttosto, un tentativo da parte di pochi “eletti” di ricondurre un ambiente sfarzoso alle concrete problematiche della quotidianità attraverso il richiamo alla spiritualità e ai valori dell’insegnamento del Vangelo?
Religione e ostentazione del proprio credo, non possono non dare vita all’interrogativo se la spiritualità sia una componente interiore e intima piuttosto che un “vessillo” da sbandierare, a volte persino una forma di esibizionismo o di scaramanzia.
Forse Dio ci aiuta a siglare una rete o ci protegge da un infortunio se ci facciamo e rifacciamo il segno della croce all’ingresso in campo o, piuttosto, Dio ci ama in minor misura se non “reclamizziamo” il suo “prodotto” che, comunque, offertoci e offertosi in nostro sacrificio e aiuto, non necessita di alcuna campagna di “marketing” a sostegno?
Forse, più semplicemente, è solamente una forma di gratitudine profonda a Dio per la propria esistenza. Il segno della croce è promessa di vivere nella parola di Dio, anche se non sempre tutti gli atleti poi in campo si comportano di conseguenza.
Certo, nel mondo dello sport e dello spettacolo molto è fatto anche per posa o prosa e, magari, determinati gesti sono solo eccessivamente appariscenti e null’altro: come non ricordare, infatti, le immagini dell’ultimo mondiale africano con l’allenatore della nazionale argentina che intrecciava e baciava con una certa frenesia il rosario in campo?
Cultura sudamericana o esibizionismo, sacro o profano?
Religione e spiritualità sono comunque componenti della vita di ciascun individuo e, in quanto tali, personalissimi. Così, c’è chi va in Chiesa tutte le settimane, chi invece trova e parla con Dio davanti a un tramonto o nella quiete e solitudine della sera, lo celebra dentro di sé nella propria anima salendo a quota 3000 metri lungo la china di una montagna, chi lo ritrova magari grazie al sorriso di un bambino.
Forse ognuno dovrebbe custodire dentro di sé la propria spiritualità, senza esibirla, magari anche per rispetto di chi non crede per nulla, crede in misura diversa o in un Dio diverso dal nostro che, comunque, ci ha creati.
Forse, invece, nascondere la propria fede non significa rispettare chi non crede o segue altre religioni: il rispetto, spesso, è semplicemente tolleranza, cercare di comprendere e non giudicare mai neppure chi ostenta o chi predica bene e poi non si comporta in modo coerente.

Roberto Alessio

La stima nei confronti di Roberto Alessio mi ha impedito di sorprendermi più di tanto per questo contributo, che arricchisce la nostra rubrica: da lui mi aspetto questo ed altro e so che non è il solito solo “coni e cinesini”, ma ha la propensione e la capacità di comunicare idee.
Certo che non mi è passata inosservata l’abitudine di sportivi - per lo più calciatori - di alternare magliette della salute con messaggi del tipo “Vi ho purgato ancora”, “I belong to Jesus”, “6 unica”, “Why always me?”, “Grazie Dio”, “Secondotestomale”, “Gesù è la verità” o “Nun è successo”… ma ho sempre considerato l’esibizione di tali messaggi alla stregua delle bestemmie che sento urlate sui campi di gara - purtroppo anche queste, per lo più di calcio - semplicemente comportamenti passibili di provvedimento disciplinare da parte del direttore di gara, come da regolamento.
E quindi ben venga l’espulsione per una bestemmia, anche se la volta che a fine partita avevo fatto presente all’arbitro che a bestemmiare era stato lui, mi sono preso una squalifica di due giornate - io che, coerentemente, da ateo, non ho mai bestemmiato in vita mia… - e ben venga l’ammonizione per chi esibisce messaggi non violenti (espulsione se violenti o offensivi) sull’abbigliamento intimo, istoriato per l’occasione.
Non scendo nel giudizio di merito sul fatto che la testimonianza di un credo possa essere svilita alla stregua di un complimento galante a Ilary Blasi, non che lei non lo meriti, ma penso che non sia la stessa cosa; considero piuttosto che non sia il caso di dividere in tifoserie ultras trasversali i giocatori in campo, ricordiamoci che le religioni sono certamente più numerose delle squadre di un campionato e in più c’è la posizione di chi non ha scelto nessuna di esse.
Come al solito, è giusto sperare che il buon gusto e l’etica ciascuno ce l’abbia dentro, ma non è obbligatorio averli e comunque ciascuno potrebbe averli diversi da chiunque altro, quindi ecco che ci vengono in aiuto le regole, che ci sono già, basterebbe farle rispettare.
Le regole si possono lecitamente criticare e combattere, ma prima di riuscire a cambiarle (per carità… mai in corsa!), bisogna rispettarle.

Paolo Balbi


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