Perché mio figlio in panchina?
«Anche suo figlio va in panchina, come tutti gli altri del resto», potrebbe essere una risposta adeguata e pratica da fornire a un genitore assillante e preoccupato per il momentaneo “accantonamento” o mancato utilizzo del proprio figliolo in partita.
Prestiamo comunque una doverosa attenzione nella verifica della situazione contestata, poiché la risposta si rivela corretta ed efficace solamente nel caso in cui sia suffragata da esempi e motivazioni adeguate.
Poiché è umanamente comprensibile che un genitore desideri sempre che il proprio figlio si diverta e giochi - preferibilmente vincendo - proviamo a spiegare che tale situazione rientra nelle normali dinamiche del gioco, soprattutto in un settore giovanile dove per regolamento e comunque buon senso tutti devono giocare.
L’avvicendamento, inoltre, si rivelerà costruttivo per il giocatore che, proprio dalla panchina, osservatorio privilegiato, potrà verificare meglio il gioco e gli eventuali errori dei compagni e, una volta in campo, memore degli stessi, cercare di non commetterli.
Ricordiamoci, tuttavia, scout presenze e minutaggio alla mano, di verificare che l’avvicendamento sia realmente costruttivo e credibile, cioè che non avvenga solamente e sempre nei confronti degli stessi giocatori, solitamente i meno rappresentativi o, fatto ancor più triste nelle categorie giovanili, a risultato acquisito.
In questo caso, dovremmo cercare un rimedio effettivo per offrire pari opportunità di gioco (organizzare ad esempio incontri amichevoli), essendo inopportuno, oltre che indelicato rappresentare al nostro interlocutore che il figlio gioca di meno perché è ”scarso”. Se poi vogliamo essere veri e sinceri fino in fondo, comunichiamo che l’allievo non ha raggiunto, alla pari degli altri compagni, quelle competenze e abilità necessarie a un utilizzo maggiore e che si cercherà, con l’aiuto e la buona volontà di tutti, di insistere nel miglioramento quotidiano, poiché, cercare di portare un valore aggiunto al livello di preparazione iniziale dei ragazzi affidati, rientra sempre tra i compiti dell’allenatore.
Naturalmente, è consigliabile aver discusso e affrontato l’argomento con il giocatore interessato prima dell’effettivo intervento della famiglia, spiegando serenamente i motivi e l’obiettivo da perseguire nello specifico: magari, potremmo trovarci di fronte un giocatore consapevole e comunque felice di ciò che è e fa, di vivere quel momento di sport in modo spensierato e senza traumi di sorta, fatti questi che potrebbero essere esposti ai genitori, forse maggiormente interessati di lui al minutaggio in gara.
Nel caso in cui ci fosse richiesto un parere professionale, in modo educato e distaccato o sotto forma di consiglio, sulle reali possibilità o attitudini di un ragazzo o sull’opportunità della scelta effettuata o di continuare nella disciplina sportiva, perché esitare a fornire un apporto professionale alle famiglie? Competenza nella risposta, proprietà di linguaggio e forma di comunicazione adeguata possono rivelarsi strumenti vincenti, senza naturalmente avere mai la presunzione o la prerogativa di convincere nessuno, prestando comunque attenzione a non essere mai lapidari e frettolosi nei giudizi, poiché la crescita psicofisica degli adolescenti è un processo continuo e rapido, spesso non prevedibile nell’evoluzione.
Tratto da:
Nella valigia dell'allenatore - Viaggio di un allenatore consapevole
III edizione, marzo 2014, in www.libreriauniversitaria.it