Mentre fervono i preparativi per l’imminente mondiale in Russia, c’è una triste realtà di cui il popolo degli appassionati è poco informato, complice un sistema omertoso che non permette la fuoriuscita di notizie certe. Se il Mondiale 1978 è stato quello della vergogna politica, mentre Italia 1990 ha rappresentato spreco e speculazione edilizia, Qatar 2022 passerà alla storia come il torneo degli scandali. A sette anni dall’assegnazione del mondiale 2022 all’emirato della famiglia Al Thani, ancora si continua a discutere sull’organizzazione dell’evento.
All’inizio ci furono le fondate accuse di corruzione ai vertici della FIFA, poi le dissertazioni sulle condizioni climatiche proibitive, le quali hanno prodotto l’inedito spostamento dell’evento dall’estate all’inverno. Infine, una piaga ancor più grande: quella dei morti sul lavoro, della quale sarebbe buona cosa iniziare a parlare.
Il Qatar fonda la propria economia sullo sfruttamento delle proprie risorse naturali. Per poterlo fare, visto e considerato l’esiguo numero di cittadini qatarioti, viene utilizzato un ingente quantitativo di manovalanza poco qualificata proveniente dal sud-est asiatico, in particolare India, Bangladesh e Nepal. Questi lavoratori, che rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione, vanno incontro a una discriminazione senza precedenti: impossibilità di mutare la propria condizione sociale, diritti civili ridotti al lumicino, cittadinanza che mai verrà concessa.
Fino allo scorso anno, era in vigore il famigerato sistema della kafala: i lavoratori non potevano lasciare il proprio posto di lavoro senza il permesso “padronale”, nemmeno in caso di violenze. Violenze che sistematicamente avvenivano, come documentato da alcune ONG. La recente riforma, giunta sotto le pressioni internazionali, presenta nonostante tutto caratteristiche tipiche del lavoro forzato. Come sottolineato da Amnesty International, per cambiare impiego nel corso di un contratto della durata tipica di cinque anni, i lavoratori hanno ancora bisogno del permesso del loro datore di lavoro, senza il quale rischiano di essere accusati del reato penale di “latitanza”. Inoltre, per lasciare il paese, i lavoratori devono ancora chiedere il permesso del datore di lavoro, il quale può negarlo; in caso di ricorso, a decidere è una commissione governativa.
Infine, ai datori di lavoro viene riservata la possibilità di trattenere i passaporti dei lavoratori, per così proseguire in maniera del tutto legale lo sfruttamento. In tutto ciò, l’ILO (International Labour Organization, agenzia ONU che si occupa dei diritti del lavoro) si è dimostrata favorevole ai progressi compiuti dal Qatar, mentre ancor più imbarazzante è apparso l’atteggiamento remissivo dei paesi di provenienza dei lavoratori schiavizzati.
In questo scenario abominevole, sono terminati i lavori di ristrutturazione dello stadio Khalifa, uno degli impianti che ospiteranno la massima rassegna intercontinentale. In questo cantiere, come in tutti quelli aperti nel paese, sono morte e continuano a morire persone. Purtroppo non è possibile fare una stima, in quanto le informazioni giunte da Doha sono ridotte ai minimi termini, ma pare si sia superato abbondantemente il migliaio. Alla base di ciò vi sono ritmi di lavoro insostenibili, associati alle condizioni climatiche poco favorevoli.
Amnesty International ha appurato altre forme di sfruttamento, quali alloggi squallidi e sovraffollati, ingenti somme versate ai recruiter, salari inferiori a quelli promessi, mancanza di salario per diversi mesi, minacce per aver protestato per le proprie condizioni.
Recentemente la BBC riportava un’analisi della Cornerstone Global, secondo la quale le tensioni tra Qatar e stati confinanti potrebbero avere ripercussioni sul piano di sviluppo degli impianti qatarioti, quindi sul Mondiale stesso.
A noi piacerebbe che la sollevazione di chi ama questo sport possa portare, nei prossimi mesi, a un generale disinteresse delle federazioni verso Qatar 2022. Sarebbe bello, ma purtroppo utopistico, pensare a un campionato parallelo disputato in un altro paese, dove la condizione del lavoratore è considerata prioritaria rispetto alla costruzione di un’infrastruttura.
In fondo siamo degli inguaribili romantici, motivo per cui continuiamo, nonostante tutto, ad seguire questo meraviglioso sport.
Si ringrazia Paolo Balbi per il prezioso contributo.