Nel 1480 l’ambizioso esercito ottomano puntava al continente europeo e, spinto da una forte tramontana, si ritrovò nella città di Otranto. La storia narra che vi furono due settimane di violenti scontri, con la popolazione pugliese che cercò di resistere strenuamente agli attacchi delle forze comandate da Ahmet Pascià. L’occupazione ottomana di Otranto, pare, fu l’origine dell’espressione “Mamma li turchi!”, ancora oggi largamente utilizzata, per lo più in chiave ironica e scherzosa.
Venerdì 11 giugno parte la fase finale dell’Europeo 2020, o sarebbe meglio dire 2021, con questa nuova formula che fa arricciare il naso ai puristi dello sport come il sottoscritto. L’entusiasmo che circonda gli azzurri di Roberto Mancini, frutto di risultati positivi e di un gioco ritrovato, rischia però di mettere in secondo piano il valore degli avversari di turno.
La Turchia che si affaccia al campionato europeo è una realtà solida, temibile e talentuosa. Per certi versi ricalca la nazionale che, quasi per caso, nel 2002 si ritrovò sul terzo gradino del podio del Mondiale. Il “trait d’union” tra le due compagini risponde al nome di Senol Gunes che, oggi come allora, siede sulla prestigiosa panchina.
Gli amici del kebabbaro della stazione, a una manciata di chilometri dal mio paese, nutrono molte aspettative nella nazionale di Gunes, mai come quest’anno a forte vocazione europea. Ci sono difensori di spessore come Kabak e Demiral, centrocampisti di qualità come Under, Calhanoglu e Yazici, oltre all’intramontabile Yilmaz in attacco. Loro però tifano Fenerbache, la squadra di Ataturk, e la loro passione è legata a figure storiche come Rustu, Alpay e Sergen. L’esordio della Turchia alle fasi finali del campionato europeo di calcio arrivò nel 1996 e, nonostante a centrocampo giostrava un giocatore spaziale come Tugay, la squadra di Terim andò in Inghilterra a far quasi da turista.
La crescita del movimento si mostrò continua e, dopo alcuni buoni piazzamenti, i nostri amici sperano nel colpaccio. Avranno ragione?