Volta la carta

IL MIO '68 di Franco Del Campo

Del Campo

Del Campo

Franco Del Campo. E’ per me davvero una grande gioia avere la sua firma nel sito web dell’A.C. Asola, mio concittadino, primo italiano a gareggiare in due finali olimpiche nel nuoto, brillante studente, maturità scientifica e laurea in lettere, docente di storia e filosofia al liceo classico e di teoria e tecniche della comunicazione politica alla facoltà di scienze della comunicazione dell'Università di Trieste, scrittore, giornalista. 

Serve altro? Ce ne sarebbe.

Mi piacerebbe che questo suo articolo potesse far riflettere i genitori di quei ragazzini che si trovano ad abbandonare, non sempre temporaneamente, l’attività sportiva in vista dell’esame di terza media o di maturità o addirittura di quello della patente.

La capacità di una buona gestione del tempo proprio o altrui nell’arco della giornata o di un periodo è una dote a volte innata, a volte affinata affrontando le difficoltà, ma che tutti noi dovremmo avere a sufficienza per conciliare un normale impegno scolastico contemporaneamente a quello sportivo, che si risolve nel nostro calcio giovanile dilettantistico con un paio di allenamenti settimanali e una gara.

Non voglio dimostrare che ognuno dei nostri giovani atleti debba porsi come obiettivi due finali olimpiche e la docenza universitaria, ma credo che l’attività sportiva al nostro livello non possa che rappresentare una valvola di sfogo fisico e mentale, migliorando le prestazioni dello studente.

Franco Del Campo non è Superman, ma “solo” una persona che ha operato una buona gestione del proprio tempo, senza farsi mancare nulla delle attività sportive, ludiche, sociali e di studio tipiche dell’età.

Sentiamo cosa ci racconta...

Paolo Balbi

Il “mio” ’68 è stato liquido. Mezzo secolo fa ho vissuto l’anno che doveva cambiare il mondo in gran parte a nuotare, nuotare, nuotare, chilometri e chilometri al giorno. Ma non solo. Ho anche studiato e per me era quasi più divertente, perché a scuola potevo anche divergere, sperimentare, forse contestare. Nel nuoto, invece, regole, fatica, sacrificio e disciplina erano il prezzo da pagare per realizzare un’utopia che fino a poco prima sembrava impossibile: partecipare all’Olimpiade di Città del Messico, che si sarebbe svolta nell’ottobre del 1968.

Mezzo secolo fa ero giovane. D’inverno nuotavo in una piscina “irregolare” di 33,33 metri e d’estate in acqua di mare della vasca del bagno Ausonia. Leggevo i giornali “sbagliati” invece dei quotidiani sportivi, avevo barba e capelli lunghi, che a qualcuno non piacevano, ma potevo permettermeli perché nuotavo a dorso e il mio stile era lungo e leggero perché cercavo di imitare Roland Matthes, il più forte ed elegante dorsista di tutti i tempi.

Così, nuotando e faticando, leggendo, studiando e discutendo su tutto, sono arrivato a Città del Messico, una splendida megalopoli inquinata, posta su un altipiano di 2200 metri, dove l’aria è sottile e respirare è faticoso. I mesi che hanno preceduto le mie/nostre gare in “altura”, in quel lungo ’68, sono stati costellati dalla morte dei nostri profeti disarmati, da Martin Luther King a Bob Kennedy. Poi c’è stata la primavera di Praga, schiacciata dai carri armati sovietici, fino al massacro degli studenti messicani, quando eravamo già a Città del Messico.

Solo con l’inizio delle gare ho recuperato il sogno olimpico. Siamo andati a vedere i 200 metri di Tommie Smith e John Carlos, perché sapevamo che c’era qualcosa nell’aria. Nella mia memoria quel podio è piccolo e lontano. Abbiamo visto a malapena quei pugni chiusi in un guanto nero. Ho scoperto solo molto più tardi che il secondo arrivato, l’australiano Peter Norman, quasi un intruso tra i due neri, aveva fatto un piccolo gesto importante mettendo sulla sua tuta verde ed oro lo stemma del Progetto Olimpico per i Diritti Umani, contro l’apartheid. Poi è arrivato il nuoto.

Ricordo allenamenti e gare, fatica e paura. Batterie, semifinali e poi – primo italiano nella storia del nuoto – due finali olimpiche, nei 100 e 200 dorso. Ricordo la lunga attesa della “chiamata”, la gara da costruire nella mia testa, bracciata dopo bracciata: a posto, colpo di pistola e via, roteare le braccia e battere le gambe, virata, che a dorso è sempre un po’un’incognita, di nuovo bracciate e la certezza di un dolore lancinante in tutto il corpo, ma sai che non devi mollare, che puoi arrivare fino alla fine, anche se nell’ultimo metro la vista ti si annebbia per mancanza di ossigeno e non riesci più a pensare.

Alla fine due volte ultimo, per una frazione di secondo, nei 100. Forse il mio dorso, a differenza del solito, è stato troppo corto e contratto. Forse ho fatto una bracciata in più, annebbiato dall’ipossia, invece di allungarmi verso l’arrivo. Due volte ultimo, ma due volte in finale. Il ritorno a casa è stato caloroso e gioioso, con i compagni di scuola che mi hanno portato in trionfo, un po’ per scherzo e po’ per orgoglio, fin sotto il municipio. La polizia – ho saputo più tardi – in un primo momento si era preoccupata per quella “manifestazione non autorizzata”, ma poi avevano capito e tollerato quel corteo improvvisato per una piccola “gloria cittadina”.

Finite le gare, finita l’emozione e la fatica, sbiadita l’abbronzatura messicana, con un vago senso di vuoto e di completezza, bisognava ritornare a scuola a studiare. Ma era il ’68. Il mondo ci stava stretto, le regole erano state scritte da altri, senza chiederci mai un parere, la scuola era ingessata, nel metodo e nei programmi, le ragazze dovevano ancora nascondersi dentro grembiuli neri e noi portavamo una (finta) cravatta tenuta su con l’elastico. E allora bisognava provare a cambiare, sperimentare soluzioni innovative, cercare nei risvolti delle materie tradizionali le parti mancanti. Da qui la curiosità e la ricerca di nuovi strumenti per studiare e forse cambiare il mondo. Così è arrivata l’occupazione della scuola. Sono andato, forse “protetto” dai recenti risultati olimpici e da una pagella non disprezzabile, assieme a una delegazione studentesca, dal preside della scuola, a comunicargli che la scuola era occupata e che quindi – per cortesia – doveva darci le chiavi. Ma gli ho anche detto di non preoccuparsi perché non avremmo fatto entrare alcun estraneo e avremmo mantenuto tutto in ordine. Il preside, un po’rassegnato e un po’ sollevato, ci consegnò quasi subito le chiavi e mi disse: “…mi raccomando…”.

È iniziata così la nostra “occupazione gentile”. Avevamo preso un impegno, ma dovevamo provare a noi stessi che saremmo stati in grado di governarci con le nostre regole, condivise, che avremmo fatto di più e meglio, inventandoci dei corsi “alternativi”, che faticavamo a riempire di contenuti innovativi.

Poi abbiamo scoperto “Lettera a una professoressa”, scritta da uno strano prete, che raccontava una scuola diversa e possibile, dove nessuno doveva restare indietro, e che “non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali”, ma dove si doveva studiare, magari leggendo i giornali, ed impegnarsi. E poi c’erano le assemblee, una conquista democratica, destinate a diventare un rito interminabile. Assemblee che guidavo con un frammento di “carisma olimpico”, che poi ho rifiutato perché era troppo facile ed inquietante. Avevo toccato con mano che la “volontà generale”, teorizzata da Rousseau, si uniformava quasi sempre a quello che era già stato deciso.

L’occupazione, però, era diventata l’occasione per sentire la scuola davvero “nostra”, da pensare e gestire in prima persona, da innovare tra contestazione e senso di responsabilità. Nei corsi “alternativi” abbiamo scoperto il Novecento, il Fascismo, la Resistenza e la Costituzione, fino ad allora marginali nei nostri “programmi”. Non volevamo i partiti dentro l’occupazione, ma lentamente è cresciuta dentro di noi – tendenzialmente libertari – la coscienza antifascista, anche perché i fascisti a Trieste erano duri, cattivi e pericolosi. Dopo aver sperimentato l’ebrezza di una libertà indistinta, dopo aver studiato da soli e aver preparato un “programma” di richieste, forse un po’ banale, moderato e “riformista”, senza cedimenti al “sei politico”, perché ci tenevamo a una buona media, abbiamo deciso di smobilitare. Ma prima c’è stata una grande pulizia e riordino della scuola e delle aule.

Alla fine ho restituito le chiavi della scuola e il “programma” di richieste al preside, che accolse tutto con un sospiro di sollievo e si astenne da qualsiasi punizione nei nostri confronti, forse perché – in fondo – eravamo dei bravi ragazzi. Questo è stato il nostro ’68, sperimentale, riformista e formativo, alla ricerca di nuove conoscenze e regole da condividere. Ma la speranza di cambiare il mondo senza troppa fatica si è presto esaurita.

La scuola, comunque, è rimasta al centro della mia vita. Nei 40 anni successivi ho insegnato Storia e Filosofia e ho cercato di dialogare con gli studenti, dandoci sempre del “lei” per coniugare il rispetto reciproco con le regole, studiare il passato per capire il presente e modificare il futuro, alla ricerca di un “umanesimo consapevole”.

 

Il nostro ’68 si è frantumato il 12 dicembre 1969, con la strage di Piazza Fontana. Una “strage di stato”, che aprì le porte alla violenza del terrorismo rosso e nero, alla strategia della tensione e agli anni di piombo, ancora senza colpevoli. Ma quello non era più il “mio” ’68.


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